Pomodoro Packaging
Pomodoro. Senza marketing è tutta in salita.
Un prodotto è tutto ciò che la natura o gli uomini producono. La fase terminale dei processi di produzione è il confezionamento, l’imballaggio: il packaging. Poi c’è la distribuzione. Ma prima di tutto, evidentemente, si dovrebbe elaborare un piano di marketing, per capire come e dove vendere.
Oggi anche il miglior prodotto del mondo non trova la sua strada – ovvero il carrello del consumatore – se non si offre con una rinnovata capacità comunicativa, potente e seduttiva, alternativa a tutti gli altri prodotti simili. E lavorare sul packaging significa progettare uno dei principali elementi caratterizzanti, ovvero giocare su una delle “leve” della strategia di marketing: il vantaggio competitivo di natura distintiva.
Passare da prodotto “Me too” (Me2, letteralmente: anch’io, è così definito un prodotto del tutto simile ad altri, di altre aziende) a frutto della terra, differenziato, riconoscibile, con un certo appeal, non è un percorso facile, né breve, né rapido, né economico. È più o meno come passare da impresa “contoterzista” ad azienda che produce con un proprio marchio.
Dalla fine dell’Ottocento, ma il percorso è a tutt’oggi piuttosto comune, pochissimi produttori hanno frequentato la strada dell’investimento sul packaging o anche solo sull’etichetta, pochissimi hanno puntato su una politica di differenziazione nella comunicazione.
Quasi vent’anni or sono, nel corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, seguendo una ricerca (Marianna Trezza, Immagini dell’oro rosso. Le etichette del prodotto conserviero dell’Agro, 1997), l’argomento ci apparve in tutta la sua imbarazzante chiarezza: la maggior parte dei tentativi di labelling ha frequentato la stantìa oleografia dei pulcinella, dell’appartenenza ad una napoletanità banale e consunta, quanto anonima. Se si esclude il più famoso brand Cirio, che poteva vantare una cultura d’impresa ed un management più evoluti, la maggior parte della produzione è senza alcun “pensiero di comunicazione”. Solo sull’onda di Cirio, qualche follower della marca leader, ha affidato negli anni Cinquanta ad un illustratore, cartellonista, artista, un salernitano di grande versatilità, Gabriele D’Alma (autore del primo e autentico ippocampo, simbolo della squadra della salernitana) un lavoro che ha una qualità piuttosto rara. Una fanciulla – straordinariamente somigliante alla “collega” casalinga della Star – con un generoso decolté, regge una confezione di “doppio concentrato di pomodoro” delle Conserve alimentari Di Muro, di Pontecagnano, Salerno. Diversamente dall’illustrazione, l’etichetta è nel solco della tradizione iconografica e molto meno innovativa: disegno del prodotto, nome, fondo blu intenso.
Eppure, nel terzo millennio, lo sviluppo di una strategia di marketing per una maggiore penetrazione nei mercati dovrebbe ormai essere una pratica ed una consapevolezza diffusa. Tuttavia, in quasi vent’anni, lo scenario non sembra modificato grazie ad una maggiore cognizione del “fare mercato” e del comunicare.
Eppure, solo a titolo di esempio, uno dei primi aspetti di una azione di gruppo tra i produttori potrebbe essere quella di promuovere un prodotto a maggior valore come la “polpa di pomodoro”, rispetto alla più umile “passata”. È quanto hanno fatto tanti consorzi, cito solo il “caso” storico del mitico parmigiano reggiano. Si tratta di “parlare” al consumatore, fare comunicazione formativa, illustrare le qualità del prodotto.
Ma una delle carenze principali del settore del pomodoro è l’assenza di una visione strategica e di un lavoro di gruppo. Una caratteristica tipica dei tentativi di protezione “a monte”, è l’idea che basti promuovere il prodotto con il ricorso alle varie sigle DOP e IGP, che “illudono” e “acquietano” rudimentali esigenze di marketing ormai del tutto inadeguate – se restano iniziative isolate – a sostenere l’aggressiva competitività globale.
L’Italia è il quinto produttore al mondo, dopo Cina, USA, Turchia e India e la Campania è la seconda regione dopo la Sicilia, per superficie dedicata al pomodoro (fonte: SG Marketing su dati Istat). Si può fare di più e meglio.
È un autentico spreco di potenzialità inespresse la sottoesposizione d’immagine dei produttori della provincia di Salerno, esiste uno spazio notevole sui mercati globali, dove il food Made in Italy possiede un valore ed un fascino, in questo caso, per niente sfruttato. Neppure l’iscrizione della dieta mediterranea a patrimonio mondiale dell’umanità da parte dell’Unesco è servita a motivare un rilancio.
Packaging.
Perché usare una parola inglese invece della nostra espressione, più semplice e comprensibile di “imballaggio”? La parola inglese, non significa solamente imballaggio, ma qualcosa che illustra l’atto stesso del fare confezionamento e non risulterebbe traducibile con la stessa efficacia. Il termine package, significa appunto pacco; packaging significa impacchettare, imballare, più esattamente la confezione, la presentazione pubblicitaria (Oxford Italian Dictionary, 2006 Oxford University Press).
Dunque il packaging si può sintetizzare come la presentazione del prodotto al cliente.
Come il nome proprio per una persona, così anche la marca per un prodotto, o un servizio, lo identifica, lo rende unico e riconoscibile, gli attribuisce caratteristiche particolari e una identità distintiva.
La riconoscibilità di un prodotto passa, dunque, attraverso la capacità della marca – che lo veste – di associare ad esso tratti e valori particolari che lo rendano effettivamente non interscambiabile con altri prodotti del tutto similari; è evidente che, in un mercato estremamente competitivo, invaso da prodotti assolutamente sostituibili gli uni agli altri (me2), dove l’innovazione vera è sempre più rara, la valenza che la marca deve attribuire al prodotto – oltre alla notorietà – è soprattutto di natura immateriale.
Nel settore della produzione del pomodoro tuttavia la povertà del confezionamento, in termini di design è sconcertante. Non parliamo del confezionamento con contenitori, materiali diversi e nuovi, perché presupporrebbero cospiqui investimenti in tecnologie complesse, ma anche semplicemente nel design delle etichette.
In realtà il package non è che un elemento/strumento della strategia, mancando la prima, manca il contenuto concettuale da trasmettere al consumatore. Non esiste la “bella etcihetta” in altri termini esiste la giusta strategia cui l’etichetta fa da “venditore silenzioso”.